Quanti furono i soldati, graduati e ufficiali italiani fatti prigionieri dagli austriaci e, dopo Caporetto, dai tedeschi?

E quanti di essi perirono nei campi di concentramento o non fecero comunque più ritorno alle loro case?

Secondo la “Commissione parlamentare d’inchiesta sulle violazioni del diritto delle genti commesse dal nemico”, che terminò i lavori nel 1920, i prigionieri italiani furono circa 600.000, di cui 19.500 ufficiali.

Ma ancora più impressionante è la cifra dei morti: 100.000 italiani perirono nei campi di concentramento ed il numero è da considerare per difetto, perché, per ammissione degli ex nemici, nel computo sono esclusi i morti nelle compagnie di lavoro, disseminate in ogni angolo dell’Europa centrale.

Quali furono le cause della morte?

È questo il dato forse più agghiacciante: solo in minima parte essa dipese dalle ferite contratte in battaglia; la stragrande maggioranza perì per malattia, soprattutto la tubercolosi e l’edema per fame.
La fame, il freddo, gli stenti, furono quindi alla base dell’ecatombe dei prigionieri italiani.

Eppure la questione prigionieri era stata già affrontata nel trattato dell’Aja del 1907: l’art. 7 recitava che ai prigionieri doveva essere garantito un trattamento alimentare equivalente a quello riservato alle truppe del paese che li aveva catturati; inoltre ai primi del 1915, pochi mesi dopo lo scoppio del conflitto mondiale, apparso evidente che tutte le norme erano inadeguate, grazie alla iniziativa della Croce Rossa Internazionale, fu creata a Ginevra l’Agenzia di soccorso a favore dei prigionieri di guerra, cui aderirono tutti i paesi belligeranti, che svolse una azione di controllo e stimolo sui vari governi per l’attuazione di misure umanitarie, risultando anche il principale canale di comunicazione tra gli stati belligeranti.

Nessun governo aveva però previsto di dover far fronte a prigionieri che arrivavano a ondate di decine di migliaia alla volta: a gennaio del 1915 in Germania vi erano 600.000 ex combattenti, divenuti 1.750.000 un anno dopo, proprio quando la situazione alimentare si faceva difficile anche per la popolazione interna, causa il perdurare del blocco navale inglese.

Gli osservatori svizzeri consigliarono allora l’invio diretto di aiuti ai prigionieri da parte delle varie nazioni in guerra, così nell’aprile del 1916 Germania, Francia ed Inghilterra si accordarono in tal senso, allargando l’accordo allo scambio di tutti i prigionieri malati o feriti. In questo modo le tre nazioni poterono salvare un ragguardevole numero dei loro soldati catturati.

E l’Italia?

Nel 1916 il governo italiano era stato messo al corrente di quali fossero le effettive condizioni dei soldati fatti prigionieri, ed anche di quali fossero le condizioni della stessa popolazione austriaca; risultava così palese come fosse impossibile per quel paese fornire ai prigionieri di ogni nazionalità i mezzi di sostentamento e di vestiario necessari.

Veniva anche fugato ogni dubbio sulla corretta applicazione dell’art. 7 del trattato dell’Aja: le truppe austriache ricevevano lo stesso trattamento alimentare dei prigionieri nei campi di concentramento.

Ben consapevole di ciò, il Governo italiano, in perfetta sintonia col Comando Supremo dell’esercito, rifiutò sempre ogni tipo di intervento statale, tollerando appena l’invio di aiuti da parte dei privati cittadini.

Per coordinare l’invio dei soccorsi, già nel 1915 era stata creata all’interno della Croce Rossa Italiana la Commissione prigionieri di guerra con a capo il senatore Giuseppe Frascara, che si affiancava ad un analogo istituto militare per la gestione del problema dei prigionieri di guerra austro-ungarici presenti sul territorio italiano, al comando della quale era stato messo il generale Paolo Spingardi.

La Commissione prigionieri della C.R.I. aveva anche il compito di gestire il flusso della corrispondenza dai campi di internamento alle famiglie e viceversa, e le lettere prima di essere inoltrate in Italia dovevano passare il visto della censura militare. Il C.S.I., per evitare il diffondersi di notizie considerate “pericolose” ed il conseguente diffondersi del malcontento tra le famiglie nel 1917 avocò a sé il totale controllo della corrispondenza: attraverso la censura militare fu così in grado di controllare tutte le operazioni di invio e ricevimento della corrispondenza tra prigionieri e famiglie.

In questo modo si otteneva anche un altro e non secondario risultato: quello di smascherare e colpire eventuali disertori, i quali, a volte, nello scrivere a casa, maledicevano il momento in cui si erano dati volontariamente prigionieri al nemico.

Era, questo dei disertori, il chiodo fisso del generale Luigi Cadorna, che trovava concorde nella sua opera di repressione, il capo del Governo Antonio Salandra prima e poi, col governo Boselli, il ministro degli esteri Sidney Sonnino.

Il mancato aiuto governativo ai prigionieri doveva servire come deterrente per coloro che avessero intenzione di sfuggire alla durezza della vita al fronte con la resa al “nemico”.

Con la propaganda mirata e la censura preventiva tale situazione veniva poi pubblicizzata nel paese, attraverso opuscoli militari e giornali amici.

L’effetto della diffusione di queste notizie così di parte fu quello di irritare il governo austriaco che minacciò per ritorsione di chiudere le frontiere ad ogni aiuto proveniente dall’Italia, e fu solo per l’opera di mediazione svolta dalla C.R.I. se l’incidente fu chiuso.

In realtà, la percentuale dei soldati che commisero il reato di diserzione passando al nemico fu minima: la stragrande maggioranza preferì nascondersi all’interno del paese oppure non presentarsi alla chiamata di leva se residente all’estero.

Per arginare il fenomeno della diserzione furono emanate norme severissime.

Ad esempio il ritardo ammesso per il rientro dalla licenza venne ridotto a 24 ore contro i 5 giorni previsti dal codice penale militare; è facile intuire come questa norma producesse l’effetto contrario: il soldato che per disguidi nei trasporti superava le 24 ore di ritardo nel presentarsi al reparto, disertava per paura delle ritorsioni, perché i tribunali militari erano stati esplicitamente invitati ad applicare il massimo della pena, cioè l’ergastolo o la fucilazione.

Ma i provvedimenti colpivano anche la famiglia del disertore o presunto tale: si andava dal blocco dei sussidi di guerra, all’affissione del comunicato di denuncia sulla porta di casa e nell’albo comunale; se il militare sospettato si trovava internato in un campo di concentramento in territorio nemico, alla famiglia era proibito l’invio di corrispondenza e pacchi viveri.

Si condannava quindi alla morte civile sia il militare prigioniero che la sua famiglia in Italia.

Solo dopo Caporetto, in presenza di un gran numero di sbandati nel paese, il C.S.I. fu costretto ad emanare una specie di sanatoria nei confronti dei disertori a patto che si fossero presentati entro una certa data (bando Cadorna del 2 novembre 1917) che fu prorogata più volte sino al 29 dicembre.

Ma già un decreto del 21 aprile 1918 a firma del generale Armando Diaz aggravava la situazione equiparando la diserzione all’interno con quella in faccia al nemico, punibile con la pena di morte.

Alla fine del conflitto i processi per diserzione all’interno del paese, cioè per il militare che si allontanava dalle retrovie del fronte o non tornava dalla licenza, furono 150.429 su un totale di 162.5263; quelli per passaggio al nemico 2.662, in presenza o in faccia al nemico 9.472.

Nel 1918, alle violente proteste delle famiglie contro l’abbandono dei prigionieri italiani in suolo nemico da parte dello stato, si aggiunsero le accuse di varie nazioni anche alleate: l’assenteismo italiano stava assumendo l’aspetto di scandalo internazionale.

Il conte Guido Vinci, delegato generale della C.R.I. a Ginevra, aveva inviato al capo del governo Vittorio Emanuele Orlando una relazione in cui tra l’altro era scritto: “La differenza tra quanto si fa all’estero ed in Italia è stridente; in Francia e Inghilterra si è organizzato un servizio che permette l’invio di 2 chilogrammi di pane la settimana per ogni ufficiale e soldato, la Francia ha deciso di provvedere anche per i Serbi prigionieri.
L’America non aveva ancora un prigioniero che già costituiva a Berna immensi depositi per soccorrere la truppa che fosse catturata dal nemico.
Nei campi di prigionieri italiani il morale vi è depresso ed eccitato sino alla rivolta: non contro Austria o Germania, ma contro la patria lontana ed immemore dei suoi figli.”.

Nell’agosto del 1918, per mitigare le accuse internazionali, V.E. Orlando chiese all’onorevole Leonida Bissolati di organizzare soccorsi governativi da affiancare a quelli della Commissione prigionieri della C.R.I.; fu predisposta la spedizione di vagoni di gallette fornite dai privati e dallo Stato italiano: cinque vagoni di pane e gallette, circa 500 quintali, partirono il 16 agosto per i campi di Mauthausen e Sigmundsherberg: un semplice palliativo al problema, come fece notare il giornale “L’Avanti”.

Ma come si viveva nei campi di concentramento?

Il campo aveva al centro una costruzione ampia che conteneva i servizi comuni, attorno alla quale si diramavano lunghe file di baracche in legno che potevano contenere dalle 100 alle 250 persone.

Nei campi i prigionieri erano divisi per nazionalità ed ufficiali e soldati vivevano in baracche separate. La disciplina e l’amministrazione del campo era gestita dagli stessi ufficiali prigionieri, che si servivano dei graduati per mantenere l’ordine; buono era il trattamento economico degli ufficiali che ricevevano uno stipendio mensile identico al pari grado avversario; a loro venivano regolarmente inoltrati pacchi viveri dall’Italia, in caso di necessità potevano acquistare cibo nelle botteghe dei paesi limitrofi. Nonostante le privazioni e le difficoltà materiali che scaturirono dal prolungarsi del conflitto, la condizione degli ufficiali non fu in alcun modo comparabile a quella dei soldati semplici. I campi dei soldati non furono forniti di nessuna delle comodità offerte agli ufficiali; con l’aumento del numero dei prigionieri le condizioni andarono via via deteriorandosi.

I prigionieri erano stipati in enormi stanzoni senza riscaldamento, con pagliericci infestati da pidocchi; dovevano obbligatoriamente lavorare all’esterno, impegnati in agricoltura o nelle fabbriche, per 12 – 14 ore giornaliere.

Le mancanze più lievi erano punite con pane e acqua, le bastonate erano considerate una punizione leggera, spesso si finiva legati ad un palo al centro del campo per vari giorni.

Le punizioni sembra fossero più severe in Austria e più frequenti in Germania.

Non di rado coloro che si dimostrarono maggiormente crudeli nello sfruttamento dei soldati furono quegli italiani delegati alla vigilanza dei compatrioti, perché, grazie a questa attività, ricevevano un trattamento di favore in cibo e vestiario. I campi di concentramento negli Imperi centrali furono definiti, nel 1918, “le citta dei morenti”.

Per lenire la fame i prigionieri ingerivano grandi quantità di acqua, ingoiavano erba, terra, pezzetti di legno e carta, anche sassi.

Le conseguenze erano morte per dissenteria acuta, o per polmonite, se si gettavano in inverno dentro ai canali di scolo per raccattare la spazzatura delle cucine del campo.

La razione di cibo quotidiana che l’Austria riservava ai prigionieri era costituita da un caffè d’orzo al mattino, una minestra di acqua con qualche foglia di rapa a mezzogiorno e a cena una patata con una fettina di pane integrale ed una aringa.

Due, tre volte a settimana un minuscolo pezzo di carne.

Questo rancio non era di molto differente da quello delle guardie carcerarie, che spesso svenivano per fame in servizio.

Scriveva nel suo diario Carlo Salsa, ufficiale d’artiglieria e prigioniero dopo Caporetto a Theresienstadt: “Al campo della truppa, prossimo al nostro, sono concentrati 15.000 soldati: ne muoiono circa 70 al giorno per fame.

Spesso questi morti non vengono denunciati subito per poter fruire della loro razione di rancio, i compagni li tengono nascosti sotto i pagliericci fino a che il processo di decomposizione non rende insopportabile la loro presenza.”

Anche se la censura nemica vietava che nelle lettere fosse denunciato che si soffriva la fame, già ai primi del 1917 la nostra censura aveva notato che nel 90% delle missive provenienti dai campi di prigionia era riportata la frase “..mandate… se volete vedermi ancora..”, e di questo era stato informato il Comando Supremo dell’esercito ed il Governo italiano.

Il 31 ottobre 1918, a seguito dello sfondamento del fronte da parte dell’esercito italiano a Vittorio Veneto, la sorveglianza austriaca nei campi di concentramento venne quasi a cessare.

I soldati di sorveglianza buttarono il fucile e si incamminarono per tornare a casa mentre i prigionieri, ufficiali e soldati, assunsero il comando nei campi e per prima cosa cercarono di placare la fame.

Una delle clausole del trattato d’armistizio firmato a Villa Giusti tra Italia e Austria il 3 novembre 1918, indicava nella data del 20 novembre l’inizio del rientro degli ex prigionieri, al ritmo di 20.000 al giorno.

Non fu così.

L’Austria aprì quel giorno stesso tutti i cancelli dei campi di concentramento sparsi sul suo territorio, mentre in Ungheria ciò era avvenuto il giorno prima.

Per conseguenza si ebbe che la maggior parte dei prigionieri arrivò alla frontiera dopo un allucinante viaggio a piedi attraverso regioni sconvolte dalla guerra, dove tutto era stato distrutto o razziato e dove la stessa popolazione moriva di fame.

Diversa fu la situazione in Germania, dove i campi di internamento non furono abbandonati dalle guardie tedesche, permettendo così al governo italiano di organizzare il rientro in treno degli ex prigionieri, anche se con colpevole ritardo, perché i primi rientri iniziarono solo verso la metà di dicembre.

Ma non era ancora finita.

I soldati rimpatriati dovettero fare i conti con la versione “ufficiale” della rotta di Caporetto, secondo la quale essa era avvenuta per la diserzione in massa delle truppe, consegnatesi senza combattere al nemico; inoltre il governo era consapevole dei sentimenti ostili nutriti dagli ex prigionieri per essere stati abbandonati al loro destino.

Già il 7 marzo 1918, il generale Armando Diaz, si era detto preoccupato che il fronte interno (la popolazione italiana) venisse in contatto con i prigionieri malati o feriti resi dall’Austria, e per essi proponeva una semplice soluzione: l’invio nelle colonie della Libia.

Ma una norma internazionale del 1917 vietava l’invio in zona di guerra dei prigionieri restituiti se malati o invalidi, e la Libia era zona di guerra.

La discussione sul cosa fare e come farlo tra C.S.I. e Governo andò per le lunghe: finì prima la guerra. Ma non si accantonò l’idea di tenerli isolati.

Il 30 ottobre il generale Badoglio, ordinò alla 9ᵃ armata la costruzione di campi di isolamento della capienza di 20.000 uomini cadauno, inoltre furono riadattati i centri di raccolta degli sbandati dell’ottobre del 1917; il primo campo fu quello di Gossolengo (Piacenza), poi Castelfranco, Rivergaro, Ancona, Bari e tanti altri, all’interno dei quali risultavano internati, a fine dicembre 1918, quasi 500.000 ex prigionieri.

Per tutti iniziarono estenuanti interrogatori.

Con la fine della guerra, l’opposizione socialista e liberale tornò a fare sentire la sua voce.

Naturalmente la prima questione che venne posta al governo in carica fu quella degli ex prigionieri ancora detenuti nei campi di raccolta e sottoposti ad interrogatori la cui lunghezza faceva presagire tempi biblici per giungere ad una qualche conclusione.

Per parare il colpo e sviare le accuse, il governo diede vita alla Commissione d’inchiesta sulle violazioni del diritto delle genti commesse dal nemico, ovvero sul trattamento subito dai prigionieri italiani nei campi degli ex Imperi Centrali; si tentava far ricadere tutte le colpe sugli ex nemici assolvendo così il Governo ed il C.S.I.

Ma nei campi la protesta continuava a montare. Si resero necessarie altre misure, di carattere alimentare ed economico col riconoscimento della indennità di una lira per giorno di prigionia subito, a favore dei reduci scagionati dalla accusa di diserzione, i quali vennero mandati a casa con una breve licenza e poi reintegrati nei reparti militari originari, per essere quindi inviati in Macedonia o in Albania.

Per loro il congedo arriverà solo un anno dopo.

Non bastava.

Il 21 febbraio 1919 ci fu un primo seppur parziale decreto di amnistia per i reduci ancora reclusi nei campi.

Ma occorsero ancora mesi ed un nuovo governo, presieduto dall’on. Nitti, perché si arrivasse, il 2 settembre, ad una vera amnistia di massa: furono liberati gli ultimi 40.000 detenuti, cancellati 110.000 processi su 160.000 in corso. Veniva finalmente resa pubblica l’opera della Commissione d’inchiesta sui fatti di Caporetto, che scagionava l’insieme delle truppe dall’accusa di aver volontariamente abbandonato le armi per consegnarsi al nemico.

Il desiderio della pace, di una esistenza regolare, la necessità di lavorare, fecero dimenticare i propositi di vendetta e rivolta.

Con l’avvento del fascismo, si affermò infine una esaltazione eroica della Grande Guerra, e qualsiasi ricordo non celebrativo venne rimosso.

Dei prigionieri non si parlò più.

La resa combattendo.

In certi momenti il discrimine fra continuare la lotta o darsi alla fuga, fra resistere o gettare le armi è sottile.

Ben lo descrive un sergente dei mitraglieri di Monopoli (Bari), Annibale Calderale, riferendosi alle ultime ore della difesa del Monte Ragogna, quando tutto ormai era razionalmente perduto.

«Bastava che uno avesse voltato le spalle al nemico, in quella critica situazione, per essere seguito da tutti»

14. E in quei momenti, quell’«uno» lo si trova facilmente. L’istinto gregario farà il resto. Molto più spesso di quanto si pensi, tuttavia, gli italiani opposero resistenza contro lo strapotere dell’offensiva austro-tedesca

15. Episodi dimenticati, perché nell’immaginario popolare della “disfatta di Caporetto” è rimasto soltanto il ricordo dell’informe ed inerte massa di soldati protesi a raggiungere e superare il Tagliamento prima e il Piave poi, in cerca di una via di scampo.

Ma non si può dimenticare che fin dall’inizio della battaglia, a spettacolari e noti episodi di resa senza combattere si affiancarono meno noti, ma non meno numerosi, episodi di tenace resistenza.

In fondovalle sinistra Isonzo nella prima linea di Gabrje, ad esempio, due compagnie italiane restarono sul posto venendo letteralmente piallate dall’avanzata di quattro battaglioni della 12ᵃ divisione slesiana del gen. Lequis.

Senza contare la resistenza sul crinale Vodil-Mrzli-M. Nero, una lotta senza speranza perché dopo poche ore gli italiani si trovarono con gli austro-tedeschi alle spalle e il ponte di Caporetto inagibile perché fatto saltare. Strenua resistenza ci fu anche sul Rombon, sul Cukla, sugli accessi alle valli Resia e Raccolana.

E poi i mille piccoli e grandi, noti e meno noti episodi avvenuti durante la ritirata…

Vediamo adesso, sempre con l’aiuto dei diari dei combattenti.
Era il pomeriggio del 25 ottobre.

Qualche giorno più tardi, nel gigantesco imbottigliamento venutosi a creare sulla strada fra Palmanova e Codroipo, nei pressi di Flambro, così descrive la sua cattura il granatiere trevigiano Giuseppe Giuriati:
«Le pallottole battevano la strada e noi nei fossi, allora il comandante disse: “Corra avanti la sezione mitraglieri, che questo deve essere proprio il nemico. Avanti, mai paura, fate fuoco, che noi dobbiamo sfondare la linea e passare. Voi col fucile state fermi”.

Allora hanno preso la mitraglia in spalla e incominciano a sparare: fecero il primo attacco ma non sono stati capaci di passare.

Allora il colonnello Spinucci è rimasto morto, il comandante di compagnia ferito e diversi granatieri morti e feriti.

Ora prende il comando un altro e si cambia fronte e ora tutti si fa un altro attacco.

Ma inutili sforzi, ora ci perdiamo di collegamento, chi gira di qua e chi gira di là.

All’alba ci vediamo circondati, abbiamo fatto un altro attacco con un aspirante, misti con fanteria.

Si sente dire che ormai hanno fatto saltare il ponte sul Tagliamento, e allora essendo ormai circondati da tanto tempo, ci è toccato abbassare le armi. (…)

Oggi siamo ai 30 ottobre 1917. Addio Italia. Famiglia arrivederci. Ora mi trovo nelle mani dei germanici!»

30 ottobre, pomeriggio, Codroipo.

Il racconto di Sisto Tacconi.
«La mitragliatrice martellava e spazzava, si faceva avanti e colpiva. Oltre il piccolo muro di cinta del cortile si allargava un campo arato e in mezzo al campo v’era un fienile con piccole finestre ad inferriata. Pensammo che là dentro avremmo potuto sparare e difenderci. Vi ci slanciammo tra la fucileria e le raffiche di mitragliatrice. Un caporalmaggiore in mezzo al campo rimase fulminato. Un altro, stramazzato quasi sulla soglia del fienile, versava sangue da un’arteria squarciata e ancora premeva il dito sul fucile. Il fienile era sudicio e ingombro. Fu allora, in quell’oscura penombra, che presentimmo la rovina (…). Raffiche, fucilate, sempre più incessanti, urli di disperazione, lamenti. Qualcuno fuggiva non si sapeva dove (…) Codroipo cadeva. (…) “Aus . . .aus . . .aus “, ed altre sillabe incomprensibili. Poi un primo elmo lucente (…). Erano loro: i tedeschi, il nemico. (…)S ‘avvicinano . . . vengono …fanno dei prigionieri. — Fuoco . . .fuoco . . .fuoco, baionette alla mano — gridavamo come pazzi- Ma in un attimo, in un attimo solo, ci vedemmo spalancata la porta: “Aus …aus …aus”, una baionetta ed un fucile in mezzo ad essa, in posizione di sparo, maneggiato da un guerriero superbo, quasi fantastico, che aveva nello sguardo il lampo dell’odio, della vittoria, della morte. “Aus …aus …aus” (…) Ci arrendemmo. Il fucile si abbassò, la voce ammutolì, il soldato tedesco si piantò su un lato della porta»

30 ottobre, il 1 ° btg. del 1 1 9° Rgt. Fanteria (Brigata Pistoia) di cui fa parte l’aspirante [ufficiale] torinese Attico Dadone, pure comandato di retroguardia nei dintorni di Codroipo, — con il ponte della Delizia già interrotto — si trova circondato dalle forze austro-tedesche.

Questo il racconto degli ultimi combattimenti e della resa, in una memoria scritta cinquant’anni più tardi.

«Ci riordinammo, spingemmo pattuglie sui fianchi e organizzammo una prima resistenza. Lo scopo era quello di ritardare al massimo l ‘avanzare dei tedeschi (…) se del caso, così ci fu ordinato, sacrificandoci fino all’ultimo uomo ( si fa per dire. . . ).
Ci attestammo attorno alle case di Codroipo e attendemmo l’urto nemico, che venne verso sera. Si infittì il tiro delle mitragliatrici (…) il nemico avanzava da ogni parte col favore della notte e a un certo momento si prese a combattere di casa in casa. (…) Sparacchiando a caso, combattemmo così fino a notte inoltrata. (…) Poi (…) un Capitano, l’unico rimasto, ché il Maggiore Comandante e tutti gli altri Comandanti di Compagnia erano o morti, o feriti, o scomparsi (…) mi disse che ormai lo scopo di trattenere il più a lungo possibile il nemico sulla strada di Latisana era stato largamente raggiunto e che potevamo quindi tentare di ritirarci anche noi, col favore delle tenebre. Una parola! Ovunque ci incamminavamo venivamo ricevuti da fucileria e raffiche di mitragliatrici».

Il prigioniero Giulio Bazini, comandante della 15 18a compagnia mitraglieri “Fiat”, che ha fissato il comando in una “specie di stalla” presso Case Spellanzani [?], rafforzando il tetto con sacchetti di terra, travi e puntelli. «Ricevetti ordine di resistere ad oltranza. Congedato il portaordini (…) un grosso proiettile che stimai un 152, scoppiò sul tetto del nostro rifugio. (…) Pensai fosse giunta la mia ultima ora. Sentii precipitare con fragore le macerie, i sacchetti e i travicelli. Mi trovai steso bocconi a terra accanto al mio attendente: nella impossibilità di muovermi. (…) Ricordo di quel pauroso istante lo schianto terrificante che mi assordò, il puzzo acre dei gas combusti che insieme al polverone mozzavano il fiato. (…) Quando ripenso a quella paurosa situazione sento ancora oggi nelle nari il puzzo aspro e molesto dei gas (…) e nel cuore l’ansia terribile per il pericolo incombente di restare sepolti per sempre»!

«Andiamo verso l’esilio. Abbiamo divorato qualche scatola di carne e qualche galletta, l’ultimo cibo della nostra Italia. Poi la lunga colonna di prigionieri si muove, scortata solamente da due sentinelle germaniche. Scendiamo il monte in disordine. Eccoci sulla strada maestra. Vediamo cannoni in postazione, — forse quelli che flagellarono il Monte Ragogna, — ospedaletti da campo, feriti, morti. E la novità di tutte queste cose del nemico (…) ci fa dimenticare il nostro dolore recente. (…) Tutto è curiosità in noi. Il loro attrezzamento è così povero che non possiamo pensare come un nemico così “scalcinato” abbia potuto resistere ed abbia potuto ottenere quella vittoria su di noi».

Alessandro Pennasilico, Trincea e Prigionia, Monte Ragogna – Milovitz

Un prigioniero:
« (…) Prendiamo la strada che ci condurrà a S. Daniele del Friuli. Si marcia con più ordine. Incomincia a tuonare il cannone. Perché con tanto ritardo?(…) Perché solo ora la voce dei nostri cannoni squarcia il silenzio doloroso del fante condotto in esilio; e non tuonò sul Ragogna, quando il nemico avanzava e le artiglierie nemiche flagellavano il monte, demolendo la trincea già rossa di sangue? (…) Qualche colpo scoppia sulla strada maestra (…)ad un tratto un fragore immenso. È la morte che viene in mezzo a noi con schianto spaventoso. È indescrivibile quel momento. Fuggiamo lasciando sul terreno morti e feriti. Orrore! Essere colpiti per sbaglio dalle nostre armi! Si corre e si corre sotto il fuoco che sì accanisce, ed ognuno sembra impazzito di dolore e di sgomento. Sempre di corsa cerchiamo di allontanarci dal tiro. (…) Avevi fatto la guerra, avevi conosciuto tante battaglie, avevi fatto il tuo dovere, avevi avuto il dolore di lasciare la trincea. E sulla strada dell’esilio ti ha colpito la stessa arma che ti doveva difendere. . . »

Il campo di concentramento di Cividale.

Fin dall’inizio della guerra ad ovest della capitale longobarda era stato eretto un grande campo di concentramento per i prigionieri austriaci, dapprima con tende e poi con baracche di legno in grado di contenerne una notevole quantità. La presenza di questa struttura fu provvidenziale per i vincitori di Caporetto, che poterono così rinchiudervi gli italiani catturati dopo lo sfondamento del fronte e il dilagare nella pianura friulana. Un campo di sosta che rappresentò il primo drammatico impatto con la prigionia per le decine e decine di migliaia di italiani che non erano riusciti a sottrarsi all’avanzata AT oltrepassando i ponti sul Tagliamento.

La disinfezione

Tappa immancabile nel viaggio verso la prigionia è quella della disinfezione, personale e dei vestiti.

Immancabile e anche indispensabile, viste le condizioni in cui i prigionieri si trovavano dopo la cattura, specie quelli che in precedenza erano stati coinvolti nella ritirata.

Per i prigionieri condotti in Austria-Ungheria i punti di sosta per la “quarantena” sono più d’uno. Nei diari abbiamo trovato Feltre, Fortez- za/Franzenfenste e Lubiana.

Il soldato Mario Tarallo, classe 1899, dopo la resa sul Monte Tomba, con i piedi semicongelati, viene accompagnato verso le retrovie, alle 16 del 14 dicembre 1917.

«Ci avviano per una mulattiera che ci portò, dopo circa tre ore, fino a Feltre (…) Noi insieme ad altri prigionieri, fummo alloggiati nei locali del Circolo Panfilo Castaldi, ove trascorremmo la notte dormendo per terra, stanchissimi. Nella mattinata seguente (…) mi accompagnarono alla disinfestazione, ove alcune infermiere, ragazze alte e robuste, ci spogliaro no nudi, e dopo una doccia calda e una rasatura generale, ci portarono alla visita medica, in attesa che i nostri indumenti, legati e impaccchettati, uscissero dai forni di disinfezione. Ricordo che una ragazza mi prese in braccio con una leggerezza straordinaria e mi portò nella sala medica dove un Dottore prima mi spalmò piedi e mani con una pomata contro il congelamento e poi me li fasciò. Solo allora mi ridiedero i miei indumenti»

Il viaggio in treno

Dopo la marcia forzata durata anche dieci giorni (Garattini: dal 4 al 14 novembre) ecco finalmente il treno.

Diminuisce la fatica fisica, ma resta sempre una realtà ai limiti della sopportazione, soprattutto per la truppa.

Non che per gli ufficiali fosse piacevole, ma in genere per loro c’erano dei vagoni di terza classe ad aspettarli.

Anche se non sempre.

Per Gadda, ad esempio, il primo impatto è con un treno merci “30 ufficiali oppure 50 soldati”, alla stazione di Scheifnitz, presso Bischoflack il 31 ottobre.

«Il carro merci, come tutto il treno, non è attrezzato: è privo di ogni sedile. Bisogna dormir sdraiati sul pavimento nudo e sporco e provvedere con artifizi ai nostri bisogni. Non siamo prigionieri, ma carcerati. Ci umiliano, ci indeboliscono…».

Il giorno successivo, tuttavia, gli ufficiali vengono trasferiti in terza classe, dove peraltro è quasi impossibile dormire “per il freddo e il disagio”.

Ma che dire dei soldati che Gadda vede “ammucchiati nei carri merci scoperti”, tremanti per il freddo “che è già forte”?

Va meglio al capitano Daniele, che — dopo sei giorni di marcia e circa 1 30 km percorsi — “marca visita” e riesce a farsi ricoverare all’Ospedale aggiunto per ufficiali allestito nel municipio di Chiusaforte.

Una breve sosta all’ospedale e poi trasferimento in un treno della Croce Rossa riservato ai soldati ammalati, con vagoni di seconda classe “comodi e puliti”. E il 21 novembre 1917, e il giorno successivo, superata Tarvisio e Arnoldstein, a Warnbad nei pressi di Willach incontra i soldati di truppa, suoi compagni di viaggio da Longarone a Chiusaforte, che continuano a marciare.

Il treno arriva infine anche per i soldati semplici, ma per loro, sempre e solo carri merci.

A volte chiusi, ma non per questo più accoglienti, anzi.

«Rinchiusi a chiave in quei freddi vagoni (…) il treno correva, fuggiva, non s’arrestava mai (…) la nostra cella doveva servire anche da lugubre cesso (…) ormai da due giorni e tre notti il nostro corpo chiedeva pane, chiedeva almeno un sorso d’acqua».

È il granatiere Giuriati a fornire la descrizione più realistica di questi viaggi nel cuore dell’Europa centrale.

«Ai 14 [novembre] in treno, sui vagoni da bestie e da mangiare ogni 24 ore. Era freddo e le notti si passavano tremende, si girava a passo di morte e si vede solo che monti e montagne e boschi. Giorno 15, in treno, mi trovo ancora assieme con i miei compagni Fiorotto, suo fratello e il cognato fino al 17 in treno. Mangiare il solito caffè acqua e farinata e qualche pezzo di pane. Sempre là rinchiusi; si battevano le porte, alle stazioni, si dimandava la latrina e loro dicevano: “Sta bono italiano”, e ridevano. Ci toccava fare gli occorrenti per terra, oppure su qualche barattolo che si teneva per l’acqua e noi 4 si faceva nella pignatta; quanto profumo, quasi da morire asfissiati, poi la notte siamo passati il confine da Austria in Germania e là un bel bagno. (…) Era il giorno del mio compleanno — 17 novembre 1917 — anni 19(…)».

Questa ricerca (a quanto ci consta) rappresenta il primo tentativo effettuato in Italia di individuare e catalogare organicamente i numerosissimi campi di prigionia in cui furono rinchiusi i circa 600.000 prigionieri italiani durante la Grande Guerra.

Lo sfacelo degli Imperi, la nascita e la successiva frammentazione di nuovi stati, i vari spostamenti di confini (e delle persone che entro tali confini abitavano) hanno inevitabilmente inciso sulla toponomastica.

Pertanto i nomi con cui questi campi erano conosciuti nel 1915-1918 sono molto spesso cambiati.

I campi erano distinti in due categorie: campi di prigionia veri e propri (Kriegsgefangenenlager) e stazioni di prigionieri {Kriegsgefangenen-Stationen) dalle quali dipendevano sia i lavoratori isolati affidati a proprietari civili, sia le compagnie di lavoro (Arbeiter Kompameri), gruppi di circa 250 persone costrette a vagare per l’Europa e utilizzate nei lavori più faticosi.

I prigionieri erano rinchiusi a volte in poche baracche, a volte dentro le spesse mura di fortezze medievali, altre volte ancora in enormi baraccopoli, vere città di legno (come il tristemente famoso, già nella Prima guerra mondiale, campo di Mauthausen).

“Città di legno” che avevano una struttura organizzativa molto simile agli analoghi insediamenti per i profughi civili.

Un universo concentrazionario che ha caratterizzato la vita di milioni di persone e anche il paesaggio fisico di intere aree geografiche.

I campi, inoltre, sorgevano nei luoghi più disparati, dal Vicino Oriente alla Germania del Nord anche se — ovviamente — erano nella maggior parte concentrati in Europa centrale.

E facile quindi immaginare l’enorme difficoltà incontrata dall’autore, uno studioso serio ed appassionato, ma non collegato ai circuiti della ricerca accademica, nel mettere ordine in una materia così magmatica.

Per questo si dà per scontato che ci siano errori di individuazione e trascrizione dei toponimi, dimenticanze…

Di Burato va sottolineato il metodo di lavoro.

Studiando una micro realtà di paese, ma volendo puntigliosamente andare a fondo delle sue ricerche, ha scrostato con vigore sotto la superficie dei dati ufficiali. O — se si vuole — partendo dai dati ufficiali, ma inserendosi con determinazione in ogni varco aperto ad ulteriori approfondimenti, è riuscito ad ottenere risultati assolutamente sorprendenti, quali ad esempio la scoperta che il numero dei morti del suo paese è circa il doppio di quanto si sapesse.

Il che la dice lunga sulla reale entità del numero effettivo dei morti italiani nella Grande Guerra.

Furono davvero “solo” 650.000?

Campi di prigionia Austriaci attualmente in Italia

  • Bolzano/Bozen
  • Brazzano di Cormòns
  • Bressanone/Brixen
  • Castello Tesino
  • Egna/Neumarkt (BZ)
  • Fortezza/Franzenfeste (BZ)
  • Gardolo
  • Grigno
  • San Candito
  • Levico
  • Merano
  • Pergine
  • Pinzolo
  • Trieste